10.01.2012
Ramin Bahrami ha presentato in anteprima ieri sera a L'Infedele il Preludio della Suite Inglese n. 4
J. S. BACH – LE SEI SUITE INGLESI BWV 806-811
La denominazione di inglesi data alla sei Suite BWV 806-811 (1715-1721 ca., 1805) risale a Nikolaus Forkel, il primo biografo di Bach. Il Forkel disse che la raccolta era stata commissionata a Bach da un inglese “di alto rango”: da cui, ovviamente, la denominazione. Siccome l'autografo era andato disperso, e siccome per il musicologo è misura di cauta prudenza non fidarsi mai interamente di chi scrive di un autore scomparso da più di cinquant'anni, l'asserzione del Forkel venne per così dire posta in parentesi. Ma più tardi una piccola scoperta fece pensare che in quelle “inglesi” doveva forse esserci qualcosa di vero. Venne infatti ritrovata una copia manoscritta delle Suite n. 1 che risaliva a circa il 1750 e che era stata in possesso di Johann Christian Bach, il figlio minore nato nel 1735 e che alla morte del padre era quindicenne. In questa copia c'era scritto, in francese, “fatta per gli inglesi”. La denominazione tradizionale veniva dunque testimoniata in un momento in cui Bach era ancora vivente o era scomparso da poco, e proveniva dall'ambito familiare. Anche il Forkel aveva pescato le notizie di cui si era servito nella biografia in un ambito familiare, perché aveva interpellato Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel, i due figli di Bach più anziani di Johann Christian. C'è quindi una pur esilissima base documentaria sulla quale si può costruire una realtà virtuale che non sembra del tutto inverosimile. Si è notato inoltre che l'ascesa al trono inglese del re Giorgio di Hannover, avvenuta nel 1714, aveva stabilito legami più stretti fra l'Inghilterra e la Germania, tanto più perché la figlia di Giorgio I era la madre di Federico, il futuro Federico il Grande di Prussia nato nel 1712. Non è dunque impossibile che un inglese “di alto rango” amante della musica abbia girovagato per le piccole corti tedesche e sia capitato a Cöthen e vi abbia conosciuto e ammirato Bach. Siccome poi, quando ci si butta nel virtuale, la fantasia non conosce più limiti, si può anche supporre che l'inglese sia rimasto colpito dal fatto che Bach conosceva le Suite di Charles Dieupart, clavicembalista francese che dal 1700 circa viveva a Londra e che vi era diventato famosissimo. Il Preludio della Suite inglese in La, vedi caso, sfrutta una Giga del Dieupart, e la prima versione di questa Suite è sicuramente anteriore al 1717. Quindi, la storia del ricco inglese che si prende e si porta via le sei Suite dopo aver convinto Bach a scriverle – dietro compenso, s'intende – può essere messa lì con qualche probabilità che corrisponda al vero. Resterebbe solo da ritrovare i registri dei viaggiatori capitati a Cöthen quando ci viveva Bach, e verificare se ci sia menzionato qualche inglese. Ma se l'inglese, invece di scendere in una locanda, fosse stato ospite di un aristocratico locale, il suo nome si sarebbe volatilizzato per sempre.
La novità delle Suite inglesi, rispetto alle Suite francesi, è rappresentata dal Preludio che apre ogni suite: novità importante, messa in evidenza già dalla copia in possesso di Johann Christian Bach che ho prima citato, e che così recita: “Suite 1 con Preludio”. Altro fatto significativo: eccettuato il primo, tutti i Preludi sono composti secondo lo schema del concerto grosso italiano, con alternanza di tutti e di soli, cioè esattamente quello che Bach avrebbe fatto poi nel primo movimento del Concerto italiano. Preludio e quattro danze canoniche, con non più di un inserimento in ciascuna suite di altre danze: bourrée nella prima e nella seconda suite, gavotta nella terza e nella sesta, minuetto nella quarta, passepied nella quinta. Tutte danze francesi e, nei Preludi, stilemi italiani. La mancanza della Anglaise che troviamo nelle Suite francesi, se diamo fede alla storia raccontata dal Forkel, ci sorprende un po' e ci rimette una pulce nell'orecchio....
Come ho già detto, della Suite inglese n. 1 in La maggiore esiste una prima stesura, più semplice di quella definitiva. Il Preludio è in entrambi casi il rifacimento di una Giga di Dieupart, rifacimento che nella seconda versione si stacca maggiormente dall'originale. Bach riprende tale e quale la prima parte della Giga e compone ex-novo la seconda parte, arricchita in senso contrappuntistico nella seconda versione. Rispetto ai successivi, questo Preludio è molto breve. Nella Suite n. 1 si nota soprattutto la presenza di due Correnti, la seconda delle quali con due variazioni (double, doppio). L'insieme della scrittura è arcaicizzante, e certi suoi tratti ricordano la suite per liuto, che storicamente precede la suite per clavicembalo. La relativa estraneità della Suite n. 1 nel contesto della raccolta è messa anche in evidenza, oltre che dal Preludio di tipo diverso, dal piano tonale generale. Dalla Suite n. 2 alla Suite n. 6 troviamo questo seguito di tonalità, chiaramente intenzionale perché copre una quinta discendente: la, sol, Fa, mi, re. Il La della Suite n. 1 non può rientrare in questo schema. La Suite inglese n. 2 in la minore si apre con un ampio e robusto Preludio, in gran parte a due voci, suddiviso in episodi di tutti e di soli, e con riesposizione finale del primo episodio, caratteristica che, come ho già detto a proposito del primo movimento del Concerto italiano, lascia intravvedere la forma circolare, non la solita forma chiusa. La Sarabanda è presentata in due versioni, la prima lineare, la seconda ornamentata. Non è chiaro se entrambe le versioni siano da eseguire con i ritornelli o se la seconda debba nei ritornelli subentrare alla prima. Le opinioni divergono, ma la bellezza del pezzo è tale che anche la soluzione più radicale – esecuzione di entrambe le versioni con i ritornelli – non crea stanchezza nell'ascoltatore.
La Suite inglese n. 3 in sol minore inizia con un Preludio ancora più “concerto grosso” di quello della Suite in la. Splendida composizione, di stile e di carattere sinfonico. In tutta la Suite Bach esalta l'ethos della tonalità di sol minore, atta a recepire forti situazioni drammatiche. Basta pensare ai Preludi e fuga in sol sia del primo che del secondo libro del Clavicembalo ben temperato per avere un'idea di ciò che il sol minore rappresentava per Bach. E in questo senso il cuore della Suite n. 3 si trova nella Sarabanda – anch'essa in due versioni –, implorante e tragica. Fra la Sarabanda armonicamente densa e la Giga molto elaborata contrappuntisticamente Bach colloca le due Gavotte (la seconda in Sol), leggere, aeree, che “evadono” dal clima corrusco della Suite senza veramente contraddirlo. Le due Gavotte, separate dal contesto, come le due Gavotte della Suite n. 6, furono molto note nell'Ottocento e, rese dagli interpreti con grazia e con charme, diedero al pubblico l'immagine antistorica di un Bach rococò.
La Suite inglese n. 4 in Fa maggiore riprende i modi espressivi franchi e bruschi della Suite n. 2. Il Preludio porta nelle copie più antiche l'indicazione vitement (velocemente) perché, credo, il tema principale avrebbe potuto tollerare una esecuzione in tempo moderato che ne avrebbe però alterato il carattere. Anche qui viene enfatizzato l'ethos, gaio, del fa maggiore. La scrittura è di volta in volta contrappuntistica o armonica, e molto virtuosistica nella Giga finale. Il Minuetto II è in re. La Suite inglese n. 5 in mi minore è caratterizzata da un Preludio fugato, molto ampio e ritmicamente molto serrato, e dai due Passepied, che rappresentano un ricalco stilistico delle musiche clavicembalistiche francesi – D'Anglebert, François Couperin, Dieupart, Du Mage, de Grigny, Marchand – che Bach aveva collezionato e che teneva nella sua biblioteca, da lui detta “apparatus”. La Giga è costruita su un tema cromatico fra i più icastici di Bach.
La Suite inglese n. 6 in re minore, oltre alle quattro danze canoniche comprende, come ho già detto, la gavotta con il suo “alternativo”: Gavotta I, Gavotta II, Gavotta I. Graziosissima la Gavotta I, più che graziosissima la Gavotta II, costruita al modo della musetta, cioè del pezzo per cornamusa (della Gavotta II si ricordò Schönberg nella Musetta della Suite op. 25). La grazia un po' fanée delle Gavotte controbilancia da una parte, nell'equilibrio generale della suite, la profonda e grave emotività della Sarabanda e della sua variazione, Double, e controbilancia dall'altra parte la rudezza e direi la violenza della Giga. Il Preludio, di proporzioni monumentali, è stilisticamente ancora un primo movimento di concerto grosso, ma con introduzione in movimento lento e Allegro fugato. L'Allemanda e la Corrente, che non presentano aspetti atipici, alleggeriscono la tensione formale del Preludio e il turgore emotivo della Sarabanda. La drammaturgia complessiva della Suite n. 6 ricorda dunque così quella di una grande orazione condotta secondo le regole auree della retorica classica.
La questione dello strumento da utilizzare aveva preso alla fine del Novecento una piega tale, inconcepibile alla metà del secolo, che nel 1999 un clavicembalista come Robert Levin ritenne preferibile servirsi del pianoforte moderno per la registrazione delle Suite inglesi. Ciò, credo, basta per far capire in qual modo l'ultima generazione dei filologi abbia preso a considerare lo strumento come, appunto, strumento, non come timbro di valenza strutturale.
Piero Rattalino
Su gentile concessione della Zecchini Editore, da Piero Rattalino, Guida alla Musica Pianistica, Varese, 2012, www.zecchini.com.
Il disco delle Suites Inglesi sarà disponibile dalla fine di febbraio.